lunedì 19 marzo 2012

Tornare al socialismo perduto

Di Ruslan Abdurakhman 


«Se dovesse cadere il governo», afferma un ministro della cerchia stretta, «l’Italia tornerebbe immediatamente nel vortice della speculazione finanziaria, nel giro di pochi mesi finiremmo peggio della Grecia…». Ancora: «I risultati di credibilità conquistati sul piano internazionale, il calo dello spread a livelli fino a qualche tempo fa inimmaginabili, sono esclusivo merito dei provvedimenti approvati e dell’immagine del professore. Senza questo governo l’Italia sarebbe al disastro». La conclusione: «Chi pensa di staccare la spina rimarrebbe folgorato, per questo nessuno ha in mente di farlo». (Il Mattino , 9 Marzo 2012).
Di fronte a tali parole possiamo renderci conto che l’attuale governo Monti, non è né la novità dell’anno, né in continuità col precedente, ma è ancor più spinto sulla strada del capitalismo e dell’imperialismo euro-americano. Questo governo “tecnico”, composto da esperti, applaudito ed approvato, il quale si guadagnò la fiducia di tutto il panorama politico italiano da Alfano a Vendola, è la dimostrazione che la democrazia in realtà è una cosa diversa. Senza contare il fatto che questo governo è stato imposto e non votato (alla faccia dei presunti brogli di Putin), passando sopra ad uno dei principi fondamentali dello Stato liberale e tra l’altro proprio grazie a questi principi (o meglio scuse) le campagne coloniali (meglio conosciute come interventi umanitari) vengono attivate, e l’Italia è sempre stata in prima fila in ciò, però senza mai raggranellare nessun bottino visto che l’FMI faceva piazza pulita.
Un governo imposto; ma così applaudito soprattutto dai media, che il popolo italiano per l’ennesima volta ha accettato le benedizioni divine del capitalismo. Benedizioni per le banche, per i ricchi, per la classe manageriale in generale; sicuramente non per quei giovani che sono costretti a sperare nella “monotonia del posto fisso” e devono scegliere se indebitarsi con le banche o fare i “bamboccioni” (come un ministro ha detto qualche anno fa).
Tutto ruota attorno alle banche e al capitalismo, viste le parole citate prima, mentre vediamo un governo che invece di pensare al proprio popolo e alle condizioni dei ceti medio-bassi, si preoccupa dello spread, delle agenzie di rating: la storiella della democrazia è ovviamente una grande scemenza, ma sembra che nessuno se ne accorga, la gente incassa e crede che ciò che subisce sia necessario, perché lo dice l’UE, perché si deve fare così, perché lo dicono i mercati, perché lo dice la BCE, perché lo dice l’FMI.
Dove sono ora i difensori della Costituzione? Quelli che accusavano Berlusconi di volerla distruggere, quelli che non potevano sopportare le leggi ad-personam o le Ruby e le escort in generale, ma tacevano di fronte ai veri problemi? Perché non vedono come il diritto alla scuola pubblica, alla sanità pubblica, alla previdenza e al lavoro sono calpestati?
Dove sono gli indignados? Perché non si indignano di tutte queste porcherie?
Dove sono i garanti dei diritti umani? Quelli che abbracciavano la primavera araba (facendo da apri-pista alle compagnie petrolifere ovviamente)?
Invece di puntare il dito contro Siria, Iran, Cina, Corea, Cuba o che altro perché non pensano ai diritti Umani veri che in Italia vengono calpestati da esseri come Marchionne ad esempio, e tanti altri…
“Fino a che ci saranno famiglie come i Rotshschild, i Rockfeller […] che controllano il mondo non esisterà mai una vera democrazia”. Di fronte a queste significative parole di Josiph Stalin non si può che prenderne atto. L’abuso della parola democrazia ha portato allo stereotipo per cui il potere rappresentativo del popolo si identifica con il liberalismo.
In realtà la democrazia significa “potere del popolo” e che potere potrà mai avere un popolo, quando a decidere le politiche economiche e strategiche dei Paesi sono le banche, la borsa, il capitale e gli eserciti imperialisti? E’ ovvio che solo il socialismo è sinonimo di democrazia se non di umanità. Di democrazia, in quanto il socialismo rappresenta un sistema ove l’apparato statale controlla i beni principali e ne garantisce uguale margine di accesso per tutti, in modo che non ci sia né il troppo né il troppo poco. D’altra parte la meritocrazia, è realmente raggiungibile solo nel sistema socialista ove le condizioni di partenza sono uguali per tutti. In un sistema capitalista quando un giovane rampollo si ritrova con l’industria di famiglia in mano, rispetto ad un giovane specializzato che si ritrova ad avere un contratto a tempo determinato da operaio o impiegato, è evidente che le capacità e i meriti non siano alla base delle diverse carriere.
Di umanità, perché la specie umana può sopravvivere solo collaborando insieme con onestà e solidarietà. I valori come l’egoismo, la bramosia personale, lo sfruttamento dell’altro, l’arroganza e il sopravvento tipici del sistema liberista, sono anti-umani e possono portare solo alla rovina del genere umano.
Avrebbero dovuto spiegarlo a Gorbacev, che dichiarò nel ’99: “Lo scopo della mia vita è stato quello di distruggere il comunismo”. Forse per questo si prese il premio Nobel per la pace nel 1990. Ma non ricordano che la pace vera, quella che nasce dalla costruzione di una sovranità forte e autentica, fu soltanto conquistata da Stalin, dimenticando che i morti della Seconda GM furono 45 milioni, e che di queste vittime, oltre 26 milioni erano cittadini sovietici.
Nei suoi slogan di perestrojka, glagnost e democrazia non poteva non scorgersi uno sguardo sul modello del partito democratico americano, che secondo alcuni offre un capitalismo democratico e progressista, ignorando come nel capitalismo non ci può essere né democrazia né evoluzione, semmai involuzione.
Peccato che il suo giochetto, abbia avviato la smobilitazione del socialismo da qualsiasi Stato del Patto di Varsavia, nonché da qualsiasi partito comunista occidentale, tanto che, dalla caduta del muro, tutti iniziarono a ritnere che il comunismo fosse ormai completamente scomparso, sancendo l’ingresso nel percorso che avrebbe condotto alla fine della storia. Ormai tutti avevano sostituito Karl Marx con Karl Popper e così tutti quei partiti comunisti europei, già pesantemente snaturati durante il corso della Guerra Fredda, si riciclavano in nuove formazioni politiche dedite al liberismo assoluto.
Di fronte ad un’opinione pubblica servile e meschina, definita per errore “democratica” ci si ritrova nella stessa situazione nord-americana dove c’è la scelta tra capitalismo democratico e repubblicano, dove le due parti differiscono nella copertina, ma all’interno sono uguali, per questo nasce la necessità di invertire questo processo di “pseudo-democratizzazione” che va avanti da venti anni per ritornare al socialismo, quello vero, dove le parole d’ordine erano “chi non lavora non mangia” e “il suolo è del popolo lavoratore”.
Questo è un riferimento ad una certa sinistra formata da partitini, centri sociali, collettivi, ecc… di ispirazione anarco-troskista che rivendica per se le etichette del “socialismo” e del “comunismo”, ma non può avere una lucida visione della vita visto che è travolta dal fumo di cannabis tra una sbronza e l’altra. Ricostruire il socialismo d’acciaio senza deviazioni sessantottine, non può che essere la prerogativa per chiunque, invertendo così l’andamento delle cose, e pensare ai veri diritti sociali e previdenziali che nel trentennio staliniano (1922-1953) furono concretizzati. Non saranno otto ore di sciopero, quattro cortei, o gli scontri polizia-manifestanti a cambiare il sistema capitalista, altrimenti non sarebbe stato in piedi così a lungo. Sapendo quindi che l’unica via per cambiare qualcosa passa per i centri del potere quali il parlamento, il Partito Comunista come diceva Gramsci doveva raggiungere l’egemonia culturale e diventare così il principe che avrebbe condotto lo Stato.
Il comunismo non è mai morto, anzi tutt’oggi ci sono le condizioni per il suo ritorno, ciò che manca è un partito tale, che realmente sappia rivoluzionare lo Stato, che guardi al modello di Lenin e Stalin e che capisca che il capitalismo può essere indebolito a livello internazionale sostenendo tutti i Paesi vittime dell’imperialismo della Nato, braccio armato degli Stati Uniti e dell’UE. Sostenere Assad e Ahmadinejad significa schierarsi contro il capitalismo. Stessa cosa vale per la Cina, e per tutti i Paesi che non sono visti di buon occhio in Occidente e che sono chiamati “dittatura”. Sostenere questi Paesi, senza trovare terze vie (con le quali ti ritrovi a testa in giù), quali il non schierarsi, dicendo né con questo né con quello, significa fare il gioco dell’aggressore. E in ciò la suddetta sinistra al profumo arancione ne è emblema. Ed è proprio l’ottuso antifascismo, che provoca il vero fascismo dell’idiozia e dell’intolleranza verso i temi fondanti del marxismo-leninismo, mentre da qualche parte nel mondo c’è chi subisce un bombardamento “intelligente” al fosforo e all’uranio impoverito, da un’altra parte qualcuno di molto “democratico” tiene fra le mani i cedolini delle azioni delle multinazionali.

sabato 25 febbraio 2012


Stato e Potenza organizza l’incontro-dibattito:

“Siria: baluardo dell’antimperialismo o stato canaglia?”


L'incontro si terrà sabato 10 Marzo 2012, dalle 15.30 alle 18.00, presso il Victory Café, in Via Castel Morrone 1\A (zona Porta Venezia), Milano.


Intervengono:
- Luca Rossi, Stato e Potenza
- Ouday Ramadan, cittadino italo-siriano, ex consigliere del PDCI, testimone oculare degli accadimenti in Siria.
- Senatore Fernando Rossi, attualmente portavoce del Per il Bene Comune
- Alexander Dughin (da Mosca), geopolitico, esponente del Movimento Eurasiatico Internazionale.
- Osama Saleh, responsabile del comitato “Giù le mani dalla Siria”.
Introduce e modera, Stefano Bonilauri di Stato e Potenza.



Un ringraziamento a Lo Sai Milano per la collaborazione
L’ingresso è libero e gratuito.

mercoledì 11 gennaio 2012

SONGUN: ANTIMPERIALISMO E IDENTITA' NAZIONALE NELLA COREA SOCIALISTA



Segnaliamo l'incontro pubblico di sabato 21 Gennaio 2012, alle ore 15.30  presso la sala "Perla" dell'UNA Hotel Mediterraneo di via L. Muratori 12 a Milano:

"SONGUN: ANTIMPERIALISMO E IDENTITA' NAZIONALE NELLA COREA SOCIALISTA"

Partecipano:
S.E. Han Tae Song: Ambasciatore della RPD di Corea
Marco Bagozzi: Eurasia - Rivista di studi geopolitici
Ro Kum Su: Segretario dell'ambasciata della RPD di Corea
Flavio Pettinari: Responsabile della KFA Italia

Nell'occasione sarà presentato in anteprima il libro di Alessandro Lattanzio:
"Songun: antimperialismo e identità nazionale nella Corea socialista", edito dalla casa editrice "Edizioni all'insegna del Veltro":
http://songunbook.wordpress.com/
L'incontro rientra all'interno dei seminari di Eurasia 2011-2012.

L'ingresso è libero e gratuito.

venerdì 21 ottobre 2011

La Nato non deve più fingere: la missione era un’esecuzione

di Gian Micalessin

La "no fly zone" e la protezione dei civili si sono dimostrate un’ipocrisia. Per la prima volta si abbatte un regime andando oltre il mandato dell’Onu


Missione finita. La Nato ora gioca a carte scoperte. Davanti al cadavere insanguinato di Muammar Gheddafi la favola della «fly zone» non serve più. Ora si può dire. L’obbiettivo era solo uno. Abbattere il regime. Far fuori il raìs. La fine delle ipocrisie è salutare, ma il passaggio non è propriamente privo di conseguenze. Per capirlo basta riandare al 16 luglio 1995. Quel giorno una risoluzione Onu non basta alla Nato per salvare dal massacro 8.000 civili intrappolati nell’enclave di Srebrenica. Quindici anni dopo la Nato sfrutta una risoluzione Onu, assai più imperfetta, per spingersi molto più in là. Prima mette a segno un cambio di regime, poi usa la propria potenza aerea per garantirsi l’eliminazione fisica del dittatore. Srebrenica sta a Sirte come la notte al giorno. O viceversa.
A Srebrenica la Nato ha a disposizione uno strumento giuridico diplomatico che le permette di bombardare con piena legittimità le truppe del generale Mladic. Eppure - complici anche le ambiguità di una Francia responsabile al tempo dell’intervento aereo, preferisce tenersi il colpo in canna e restare a guardare.
In Libia, 15 anni dopo, l’Alleanza atlantica si ritrova in tasca una risoluzione assai più imperfetta, un documento che gli permette in teoria di colpire solo gli aerei o i mezzi del regime impegnati in operazioni contro i civili. Eppure in Libia la Nato travolge ogni paletto giuridico e diplomatico, spingendo l’intervento alle estreme conseguenze. Il grande salto inizia il 20 agosto quando cacciabombardieri, elicotteri e decine di incursori delle forze speciali della Nato accompagnano i ribelli alla conquista di Tripoli. Alla luce di quanto previsto dalla risoluzione 1973 ben poco di quel che avviene è giustificato. Il documento votato il 17 marzo 2011 non prevede che i cacciabombardieri e gli elicotteri della Nato appoggino l’avanzata dei ribelli verso Tripoli neutralizzando, passo dopo passo, le difese governative che bloccano l’avanzata verso la Piazza Verde. E tantomeno prevede la presenza sul terreno di centinaia di uomini delle forze speciali inglesi, francesi e del Qatar impegnate non solo ad illuminare i bersagli, ma anche a condurre vere e proprie operazioni di terra quando la macchina dei ribelli s’inceppa. Il capitolo ancor più spregiudicato è la prosecuzione dell’intervento Nato dopo la caduta di Tripoli. Con l’abbattimento del regime accusato di minacciare le popolazioni civili cadono, in teoria, tutti i presupposti giuridici e diplomatici della risoluzione 1973. Eppure in Libia, a differenza di quanto succede in Kosovo, Afghanistan o Iraq, la Nato continua a colpire sfruttando l’indifferenza della comunità internazionale.
Dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi nessun atto di guerra benedetto dall’Onu, neppure la lotta al terrorismo di Al Qaida, può contare su tanta acquiescenza. Dagli ultimi comunisti di Pechino fino ai burocrati dell’Onu, dai garanti dei diritti umani di Amnesty fino al nostrano Gino Strada o all’ultimo pacifista in marcia per Assisi tutti assistono senza fiatare alla caccia al Colonnello. Nelle conversazioni dell’aldilà con il raìs persino Bin Laden potrà oggi citare più legulei pronti a metter in dubbio la legittimità della sua eliminazione di quanti non possa vantarne un raìs consegnato al nemico dall’intervento degli elicotteri britannici.
Ma attenzione il precedente è segnato. Ottenere una risoluzione per fermare un massacro di oppositori, come, ad esempio, quello in corso in Siria, sarà, da una parte, molto più difficile perché nessuno saprà indicarne con esattezza termini e limiti. Dall’altra chiunque, pacifista o no, vorrà mettere in discussione la legittimità di un intervento armato dovrà ricordare l’acquiescente silenzio con cui ha assistito all’eliminazione del Colonnello e del suo regime.

il Giornale.it

giovedì 22 settembre 2011

intervista / L’URSS TRA MARXISMO E TRADIZIONI

di Strategos - think-tank di geopolitica AGOSTO 24, 2011


A TU PER TU CON… MARCO COSTA

GNOSI, PATRIOTTISMO E ORTODOSSIA:
SPIRITUALITA’ NELLA RUSSIA SOVIETICA E POST-SOVIETICA



Abbiamo incontrato Marco Costa, ricercatore e saggista, autore del testo Soviet e Sobornost’ – correnti spirituali nella Russia sovietica e post-sovietica, recentemente pubblicato per la collana Gladio&Martello diretta da Stefano Bonilauri, nell’alveo delle Edizioni all’Insegna del Veltro, di Parma. Il testo è, come di consueto, un’ennesima valida ricostruzione storica volta ad individuare la precarietà dei confini storici tra le realtà socialiste del Novecento e il recupero delle rispettive tradizioni culturali e politiche. Emerge la figura di Stalin, quale principale artefice di una svolta nazionale ed imperiale all’interno del clima politico in Unione Sovietica, come concretizzazione di fermenti ideologici e spirituali, di vario genere e di complessa lettura, invero già pre-esistenti in epoca leninista. Ma vogliamo saperne di più.

Benvenuto Marco. Molto in voga nella Russia post-sovietica, e profondamente ignorato in Occidente, è il dibattito in merito alla rilettura del passato comunista. La portata storica dei settantaquattro anni di esistenza dell’Unione Sovietica, è talmente ampia e densa di avvenimenti, da non poter essere certo riassunta in qualche testo o in una breve considerazione. Tuttavia, scalpore ha suscitato la richiesta, avanzata da alcuni comunisti russi nel 2008, di aprire un percorso di canonizzazione di Josif Stalin. Esposta all’incredulità e all’ilarità del pensiero comune, questa proposta ha trovato forza in una letteratura ed in un filone sconosciuto ai più ma molto radicato negli ex territori sovietici di fede ortodossa (Russia, Ucraina, Bielorussia, Georgia ed in parte persino Kazakistan ed Estonia, dove risiedono corpose comunità di fede cristiano-orientale). Nel terzo capitolo del tuo libro, esponi una disamina attenta e documentata sul periodo storico ruotante attorno alla svolta del 1943, allorquando l’atteggiamento del governo centrale sovietico nei confronti della Chiesa Ortodossa, comincia a mutare rapidamente. Quali sono le tappe principali di questa ritrovata attenzione per le peculiarità culturali e religiose del Paese da parte del Soviet Supremo?

Gli aneddoti, spesso, hanno la straordinaria capacità di coniugare vicende particolari ad un clima storico, ad uno zeitgeist, descrivendo magari provocatoriamente il tentativo di conferire uno spirito di eternità universale ad un presente particolare ed episodico. La vicenda a cui fai riferimento, circa la richiesta di santificazione di Stalin, se certamente può suscitare anche una certa ilarità, va tuttavia ben oltre la semplice trovata folcloristica inquadrabile come uno dei tanti fenomeni di nostalgija post-sovietica. In Russia questa richiesta di canonizzazione del “piccolo padre”, chiamato affettuosamente nell’Urss djadja (zio, appunto), venne portata avanti, come sincera forma di religiosità popolare, da alcuni pope e da Sergej Malinkovich, leader del Partito Comunista di San Pietroburgo che, non risparmiandosi certo in fatto di spavalderia, dichiarò fiduciosamente che “entro la fine del XXI secolo in ogni chiesa ortodossa vi sarà un’icona di Josif Vissarionovich”. Ma tale iniziativa non fu affatto isolata, e per certi versi nemmeno originale, nel senso che già altre vicende analoghe avevano fatto emergere una sorta di saldatura popolare tra elementi tradizionali, ideologici, patriottici e religiosità popolare in Russia. Tanto per fare un esempio, ricordo che già padre Yevstafy Zhakov, parroco di Santa Olga a Strel’na, nei dintorni di San Pietroburgo, affisse tra le icone da venerare anche un ritratto di Stalin insieme alla Matrona di Mosca, una santa del Novecento, e che le sue citazioni nelle preghiere durante le funzioni religiose abbondavano di riferimenti al suo “terzo padre”, Stalin appunto, che caratterizzavano buona parte dei suoi sermoni dal pulpito. “Lo ricordo tutte le volte che è appropriato – dichiarò il sacerdote – il giorno del suo compleanno, della sua morte e quello della Vittoria. Era un vero credente”. L’icona di Stalin a Strel’na non è un caso isolato. Rientra nella più generale atmosfera di “nostalgia” e “riabilitazione” che avvolge la sua figura. Il culto della personalità del “piccolo padre”, difatti, non è mai morto. A tenerlo vivo pensa spesso il Partito Comunista della Federazione Russa. Il leader Gennady Zyuganov, lo ricorda sempre come “un grande statista e patriota i cui piani quinquennali hanno trasformato la Russia in un gigante economico”. Stando a un sondaggio del centro di ricerca All-Russian Public Opinion, il 64% degli intervistati valuta come positivo l’operato di Stalin. Mentre addirittura il 69% concorda con la frase secondo cui “Stalin fu l’uomo che ha portato la prosperità all’Unione Sovietica”. Non è un caso che anche il Cremlino abbia in qualche modo cercato di cavalcare questa nuova onda spirituale e patriottica – con buona pace del revisionista filoccidentale e liquidazionista Elstin, vera e propria sciagura per la Russia degli anni ’90 consentimi di dire – ricorrendo a svariate operazioni mediatiche ed editoriali ben mirate, volte a presentare uno Stalin quale figura di primo piano della lunga storia russa, riservandogli anche un ruolo primario sia nei testi scolastici che in diverse serie televisive. Questi sono fatti, credo, incontrovertibili; la mia opinione, semplicemente, è che tale sincretismo tra gli elementi di religiosità popolare e la figura di Stalin sia uno dei tanti episodi in cui “fedi” diverse si coniugano indissolubilmente nella cultura russa, come una costante, a prescindere dai rapporti tra ideologia e nostalgia che quotidianamente si sono rimodulati attraverso i secoli. E se fuori dalla chiesetta di Santa Olga, e in diverse città del Paese, vanno a ruba migliaia di santini che ritraggono l’effige di Stalin impreziosito di un’aureola, credo sia opportuno riflettere più complessivamente e ben oltre l’aspetto per così dire kitsch di questi fenomeni, anche delle forme di religiosità ideologica nel mondo (post)sovietico.

Anche tu, come molti analisti del passato, ti chiedi se questa inversione di tendenza e questo ritrovato sentimento nazionale, quando non persino imperiale, nell’approccio politico dell’Unione Sovietica sia spiegabile attraverso una progressiva maturazione strategica che permise a Mosca di recuperare consapevolmente l’eredità storica dell’Impero degli Zar in termini geopolitici, o, invece, attraverso un più profondo bisogno di arricchire l’ideologia e la cultura ufficiale dello Stato Sovietico con elementi e fattori tradizionali. Dunque, calcolo opportunistico o qualcosa di più?

Lasciami fare una breve premessa, a scanso di equivoci; nel libro ho cercato di sviscerare alcuni aspetti della storia russa e sovietica con il tentativo di sviscerare una serie di questioni irrisolte, o forse nemmeno mai seriamente affrontate nel mondo comunista occidentale, rispetto alle intersezioni storiche tra ideologia e spiritualità. C’è una complessità straordinaria in questo rapporto, tutta tesa a confutare i facili ed ossessivi semplificazionismi secondo cui socialismo reale fosse sinonimo di ateismo. Ben più ampiamente, le ragioni stesse dell’internazionalismo di maniera nel mondo comunista scivolano via da una analisi minimamente documentata dal punto di vista storiografico. Non vi è quindi nel libro il tentativo di riscrivere una storia per così dire “al negativo” secondo cui questo rapporto valoriale tra fede e patria vada ribaltato nella storia sovietica, ma semplicemente fare emergere la complessità dialettica di alcuni momenti particolari. Penso – e cerco di rispondere alla tua epocale domanda – che tale inversione di tendenza sia stata accelerata fondamentalmente a cominciare dagli eventi bellici della primavera del ’43 in poi, e dettato da due fattori fondamentali. Da un lato il tentativo di attingere ad ogni riserva spirituale del popolo russo riabilitando il ruolo della Chiesa Ortodossa ed anzi promuovendo e supportando l’intronazione del Patriarca, dall’altro completare quell’imponente progetto di edificazione etica della Russia sovietica, in cui gli elementi di rigore, patriottismo e fede sarebbero poi stati affiancati ai più noti elementi di pianificazione dell’economia. Ma tale riassetto complessivo che definirei “spirituale” e “valoriale” – su cui peraltro andrebbero analizzati anche fattori di ordine comunicativo e semiotico; basti pensare, ad esempio, alla spettacolare propagandistica murale e visiva dell’epoca – è stato certamente un cambio di rotta dal punto di vista strettamente giuridico. D’altronde se si sviscerano i testi filosofici del giovane Stalin, lo sdoganamento del patriottismo è l’estremo compimento di una coerenza anzitutto analitica, che si pone quale esperimento rispetto al marxismo più strettamente economicista degli albori come forma di marxismo dai “caratteri russi”. Come non ricordare le pagine diPrincipi del Leninismo, dove Josif Stalin definisce il leninismo “il marxismo dell’epoca dell’Imperialismo e della Rivoluzione proletaria”. Tocca infatti al fondatore dell’Unione Sovietica, già nei scritti antecedenti la prima Guerra Mondiale, tracciare e teorizzare la teoria comunista nell’epoca delle lotte anticoloniali e antimperialiste, ponendo in primo piano la cosiddetta questione nazionale. E sarà proprio Lenin ad affidare a Stalin, nel 1912, la stesura del saggio Il marxismo e la questione nazionale, che sarà, almeno fino alla morte dell’autore, la dottrina ufficiale del movimento comunista sulla questione delle nazionalità – a Stalin fu anche affidato il ruolo di commissario politico per le nazionalità nel Governo post-rivoluzionario fino al 1923. Lenin e Stalin si rendono conto della nuova e crescente importanza della questione nazionale ai fini della rivoluzione proletaria e sviluppano arditamente le basi teoriche e pratiche della politica nazionale della classe operaia, conformemente alle esigenze dell’egemonia del proletariato nelle lotte democratiche dell’epoca imperialistica, e iscrivono nel programma dei bolscevichi la rivendicazione del diritto di autodecisione delle nazioni. Nell’epoca dell’imperialismo, quando il movimento di liberazione nazionale assunse su scala mondiale proporzioni di grande rilievo, si rese necessario ordinare queste idee di Marx e di Engels in un organico sistema di concezioni sulle rivoluzioni nazionali e coloniali, così da legare tale questione a quella del rovesciamento dell’imperialismo, considerandola parte integrante del problema generale della rivoluzione proletaria internazionale. Ed è ciò che è stato fatto da Stalin in estrema coerenza rispetto al leninismo delle origini. A definire marxisticamente le caratteristiche fondamentali della nazione è Stalin in Il marxismo e la questione nazionale: “La nazione è una comunità stabile, storicamente formatasi, di lingua, di territorio, di vita economica e di conformazione psichica che si manifesta nella comune cultura”, rigettando, allo stesso tempo e con eguale vigore, sia le teorie razziali sia le ricostruzioni che concepiscono la nazione come un conglomerato effimero o casuale. Per Stalin “una nazione ha il diritto di decidere liberamente il suo destino. Ha il diritto di organizzarsi come le aggrada, naturalmente senza calpestare i diritti delle altre nazioni”. La “democratizzazione completa del paese” è il fondamento della soluzione alla questione nazionale in Russia, dove bisogna combattere contro “l’imperialismo interno”. La soluzione, incontrovertibilmente e lapidariamente, per Stalin è che “la Russia deve tradursi in un’unione di nazioni e le nazioni in un unione di individui stretti in un’unica società, indipendentemente dalle regioni dello stato in cui vivono”. Quindi è il principio dell’autodeterminazione dei popoli, già teorizzato da Lenin, l’idea necessaria per risolvere la questione russa. Non è un caso che questo principio di autodeterminazione potesse compiersi solo riottenendo gli antichi possedimenti territoriali dello zarismo, che la fine del primo conflitto mondiale lasciava ampiamente amputati ad occidente per i russi. Sempre a proposito di aneddotica, Stalin nella sua umile dacia di Kuncevo conservava un ritratto di Pietro il Grande e, per ovvie ragioni pur disprezzando lo zarismo quale forma di decomposizione di un regime ormai assolutamente antinazionale oltreché antiproletario, non faceva mistero di ispirarsi alla sua figura nel tentativo di riconquista dello spazio nazionale russo, in quei giorni minacciato dall’avanzare delle armate naziste durante l’operazione Barbarossa.

Nei bolscevichi è sempre esistito un carattere mistico, nutrito di elementi gnostici e di speranze teleologiche, che evidenzi molto puntualmente nel tuo primo capitolo. In particolare, riporti le parole di Nikolaj Berdjaev che afferma: “il popolo russo è religioso per sua natura, per carattere e struttura spirituale. L’inquietudine religiosa investe anche i non credenti. L’ateismo, il nichilismo e il materialismo hanno acquisito in Russia una sfumatura religiosa. I russi ignorano lo scetticismo raffinato dei francesi; sono credenti anche quando predicano un comunismo materialistico. Anche quei russi che non solo hanno perduto la fede ortodossa, ma addirittura la perseguitano, conservano nel profondo dell’anima un’impronta dell’Ortodossia. L’idea russa è escatologica, rivolta al fine ultimo. Di qui il massimalismo russo”. In particolare ritieni significativo – alcune pagine più avanti – lo spostamento della capitale da San Pietroburgo a Mosca, interpretandolo come un vero e proprio ribaltamento emblematico della politica tendenzialmente laica e relativamente “europeista” di Pietro il Grande nel XVIII secolo, che sciolse il Patriarcato e fece costruire il nuovo centro imperiale. In Russia, ancor oggi si dice che Stalin abbia messo un’inferriata laddove Pietro aprì una finestra, salvando così l’Unione Sovietica e la Russia, nella sua interezza culturale, dalle nefaste influenze occidentali. Quanto c’è di vero in tutto ciò?

Berdjaev, che con il bolscevismo mantenne rapporti sempre abbastanza tesi e contraddittori, ebbe tuttavia il merito di coglierne un senso profondo, un’anima mistica, quasi un comune denominatore presente nello sviluppo culturale del popolo russo. Riassumendo estremamente, egli intravide il senso profondo della vittoria del bolscevismo nella sua origine gnostica; proprio come una fede monoteista, esso aspirava ad essere una forza nuova al servizio dell’umanità. Il socialismo utopistico di Saint-Simon e il socialismo scientifico di Karl Marx appaiono ugualmente intrisi di pretese religiose, vogliono offrire una concezione d’assieme della vita, risolvere tutti i suoi problemi, sottolineò Berdjaev. Il socialismo, in questo senso, ha un carattere messianico. Ai suoi occhi, esiste una classe predestinata dalla storia ed una struttura rivelatrice, il Partito. Tutti gli attributi del popolo eletto da Dio (attraverso la presa di coscienza, nella terminologia leninista) adesso vengono similarmente trasferiti. Il popolo russo tende verso il Regno di Dio. Ed è questo che spiega non solo le sue virtù, ma anche molti dei suoi vizi. Il Regno di Dio, infatti, gli sfugge. L’anima dell’uomo russo tende storicamente verso il Regno di Dio, ma cede facilmente alle tentazioni, alle contraffazioni e alle illusioni, cade facilmente preda del regno delle tenebre, in un dualismo che il leninismo ha perfettamente schematizzato e recepito. Vi è nei bolscevichi qualcosa di un altro mondo, che appartiene all’aldilà – sempre nell’analisi berdjaeviana – ed energie magiche emanano perfino dai bolscevichi più ordinari. Dietro ogni bolscevico agisce un fideismo collettivo, che accompagna il popolo russo in un sogno politico incantato, che forgia la nazione russa in un cerchio magico. Mi sono divertito, in questo senso, ad accennare anche ad un’altra riflessione sul carattere orientale, messianico ed etico-spirituale del primo bolscevismo, citando un paio di articoletti di Antonio Gramsci del 1917 (Una Rivoluzione contro il Capitale eCosa ci insegnano i bolscevichi), in cui si scorge, certo con un tono assai più enfatico e strettamente militante, la peculiarità antieconomicistica del leninismo, visto anzitutto come grande fenomeno di purificazione morale della grande nazione russa nell’epoca di sua maggiore corruzione morale, burocratica e abiura militare, a cui lo zarismo in piena disgregazione l’aveva condotta.

Il rapido giro di analisi sulla Russia degli anni Novanta, che compi nel quarto ed ultimo capitolo, fornisce un quadro molto esauriente delle tendenze ideologiche e culturali riemerse dopo il crollo dell’Unione Sovietica, e di come queste abbiano indirettamente trasformato anche il partito che si propone quale diretto erede del vecchio PCUS, cioè il KPRF di Gennadij Zyuganov. Deržava, tradotto in italiano per le Edizioni all’Insegna del Veltro col nome di “Stato e Potenza”, è in tal senso un testo fondamentale per comprendere a fondo le lezioni storiche assimilate dai comunisti russi e tutto un ampio patrimonio ideologico, che ad alcuni classici spunti politici del passato leninista – quali la centralità dello Stato, il mito della modernizzazione tecnica del Paese, l’inossidabile sentimento anti-imperialista e l’incremento delle forze produttive – aggiunge l’idea imperiale della Terza Roma, riletta ed attualizzata in virtù della scienza geopolitica, e il recupero in chiave social-popolare di istanze e concetti ortodossi quali sobornost’ e narodnost’. È plausibile pensare ad un ritrovato connubio tra una consistente parte delle gerarchie ortodosse e il nuovo Partito Comunista di Zyuganov in vista delle prossime elezioni del 2012?

Anche qui, breve premessa; proponendo una carrellata dei movimenti che aspirano a riappropriarsi oggi in Russia di concetti quali patria o fede, ed al contempo difendere le conquiste sociali, territoriali, geopolitiche e civili dell’Unione Sovietica, ci si rende immediatamente conto che alcune categorie di analisi e la dicotomia destra/sinistra siano del tutto inappropriate per descrivere – prima ancora che per giudicare – la geografia politica russa contemporanea, come anche di altri paesi del vecchio blocco socialista, si pensi alla Bulgaria o alla Serbia. Termini quale “conservatore” o “progressista” sono stati completamente spogliati dell’etimologia a cui siamo soliti fare riferimento, basti pensare ad un altro importante testo quale La rivoluzione conservatrice in Russia di Aleksandr Dugin, che smaschera perfettamente l’ambiguità solitamente attribuita al termine “conservatorismo”. Sulla stessa lunghezza d’onda, Stato e Potenza è un testo al tempo stesso geniale, originale ed eretico, nel senso che all’atto della sua pubblicazione ha avuto il merito di divulgare presso il pubblico italiano il background culturale all’interno del quale i comunisti russi di oggi cercano di rispolverare e rinvigorire categorie quali l’attaccamento alla patria, affondando radici di lungo corso nella storia russa – anche pre-sovietica – e cercando, peraltro con buone ragioni, di accreditarsi come i più legittimi prosecutori dei destini politici e spirituali della Santa Rus’. L’epica vittoria di Stalingrado, la difesa della nazione e la costruzione di un grande Impero sovra-nazionale, sono fattori che pesano ancora molto nell’identità russa contemporanea, ben oltre la retorica politica e l’opportunismo putiniano. Il concetto di sobornost’, a cui si appella anche Zjuganov, esprime l’idea comunitaria ed assembleare, legata non direttamente ad un’entità geografica o fisica, ma che più ampiamente insegue l’ambito di una dimensione spirituale esistente potenzialmente anche senza un principio di unificazione esterna, assurgendo al tentativo di fondere unità e molteplicità. In questo senso soviet e sobornost’ convivono come declinazioni del medesimo spirito comunitario, come destino di una nazione e di una cultura nelle sue varianti politiche – il soviet, il leninismo, ecc. – e spirituali – come comunità di destino, fondamento e forma teologale, come dinamica vitale e dimora rassicurante nello spirito. Rispetto al riferimento strettamente elettorale a cui ti riferisci, ricordo che un caso abbastanza simile è avvenuto nella Repubblica Moldava alla vigilia delle elezioni parlamentari del 2010, allorquando il presidente comunista in carica, Vladimir Voronin, nella sua campagna elettorale – guarda caso alacremente osteggiata da tutta l’opinione pubblica filoccidentale – organizzò un incontro ufficiale con un centinaio di sacerdoti della Chiesa Ortodossa nella città di Bălţi. L’incontro, presto ribattezzato con scarsa ironia dall’opposizione liberale filoamericana “l’ultima cena”, si concluse con il coinvolgimento del clero nella campagna elettorale in favore del Partito Comunista. Non credo, ovviamente, che il Patriarcato moscovita possa arrivare a tanto, in quanto una certa moderazione nei confronti del putinismo rimarrà senz’altro prevalente, ma a lungo andare – anche alla luce di una certa ambiguità di fondo che si può scorgere nel tandem Putin-Medvedev e delle connesse oligarchie sempre zigzaganti tra il quadro eurasiatico e le minacciose pressioni atlantiste in alcune repubbliche ex-sovietiche – credo che lo scioglimento delle contraddizioni economiche, sociali e geopolitiche della Russia putiniana non possa che sottendere maggiormente ad una ripresa delle tradizioni spirituali e comunitarie russe, a meno che il tritacarne spirituale ed esistenziale del capitalismo occidentale riesca – ma davvero non mi pare un’opzione sul breve termine – a fagocitare completamente il mondo post-sovietico. D’altra parte, credo sia abbastanza incontrovertibile la registrazione del sensibile incremento nel consenso elettorale del KPRF nelle ultime tornate regionali (con una media di circa il 30% dei voti e diverse regioni e città conquistate) avvenuto specularmene al pesante calo di Russia Unita, fotografando sostanzialmente un malcontento diffuso tra le classi lavoratrici, i funzionari pubblici, i pensionati ed anche gran parte delle forze armate che, negli ultimi anni, hanno costantemente visto erodere il loro tenore di vita in base ad un oggettivo processo di polarizzazione classista nella società russa contemporanea.

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Strategos ricorda che il testo Soviet e Sobornost’ è disponibile e ordinabile all’interno del catalogo delle Edizioni all’Insegna del Veltro, consultabile direttamente presso il sito internet della casa editrice.

mercoledì 1 giugno 2011

Elezioni 2011


LE ILLUSIONI DELLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA DELEGATA
di Michele Michelino

La borghesia illude i proletari sulla possibilità di cambiamenti reali. Pensare di poter cambiare la propria situazione di vita e di lavoro semplicemente con il voto nelle urne, sostituendo i rappresentanti politici dello schieramento di destra con quelli di sinistra ( o viceversa) senza intaccare la struttura e il modo di produzione capitalista porta a grandi delusioni.
Il voto serve a legittimare chi vince e gli attuali partiti, dal PdL al PD fino ai vari partiti nati dallo sfaldamento di Rifondazione Comunista, se governano lo fanno solo nell’esclusivo interesse della classe dominante, come ormai è ampiamente dimostrato (vedi l’identità di interessi sulla necessità di aiutare l’industrie, la posizione sulla guerra, ecc).
Gli interessi delle varie frazioni borghesi, mediati dallo stato borghese e dalle sue istituzioni sono sempre gli stessi. Cambia solo la formazione politica o la coalizione politica che – nella situazione data – dirige e rappresenta l’interesse particolare o collettivo della classe sfruttatrice.
Il copione si ripete anche nelle elezioni locali. La batosta subita da Berlusconi e dai suoi alleati non può che rallegrarci. Tuttavia non possiamo fermarci all’istinto, dobbiamo analizzare la realtà.

La vittoria di Piero Fassino a Torino, Giuliano Pisapia a Milano, Luigi de Magistris a Napoli, Massimo Zedda a Cagliari, Roberto Cosolini a Trieste, per quanto avversari del centrodestra e di schieramenti opposti, diversi su alcune proposte, possono rappresentare anche un “vento nuovo”, ma non rappresentano visioni del mondo e modelli di società contrapposti, bensì frazioni diverse della stessa classe borghese, del capitale, che a livello locale si combatte su interessi contrapposti.

Da una parte ci sono gli interessi del capitale finanziario, del capitale industriale e commerciale e delle rendite parassitarie, dei sostenitori della svendita delle proprietà statali ai privati e agli amici degli amici, rappresentati a rotazione e volta per volta da Berlusconi e dal centrodestra e dall’altra quelli della frazione dei concorrenti, degli Agnelli, dei De Benedetti, Della Valle, ecc, sostenuti dal PD e dal polo di centro sinistra insieme ai suoi alleati. Anche a Milano queste frazioni si sono divisi in schieramenti contrapposti. A Milano Giuliano Pisapia è stato sostenuto dal Comitato “oltre il 51” per cento guidato da Piero Bassetti (primo presidente della regione Lombardia, ex parlamentare Dc e presidente della Camera di Commercio) forte di circa 200 firme di rappresentanti e personaggi influenti del mondo dell’economia tra cui Luciano Balbo, Salvatore Bragantini, Carlo Dall’Aringa, Alessandro Profumo, Anna Puccio, Pippo Ranci, Sabina Ratti, Guido Roberto Vitale, Marco Vitale.

I vari avversari che si sono sfidati in questa campagna elettorale pur rappresentando frazioni diverse del capitale, sostengono gli interessi della stessa classe: la borghesia, gli sfruttatori.
Ognuno di questi schieramenti ha cercato di attirare i voti dei proletari, della piccola borghesia e di tutti gli strati intermedi ignorati, schiacciati e dimenticati dalla loro politica, politica che si ricorda di loro solo in periodo elettorale. Ormai anche in Italia ha fatto scuola il modello americano basato sui leader che fanno le campagne elettorali basandosi sui sondaggi e le trasmissioni tv. Dirigenti politici che evitano di confrontarsi con le piazze con cui hanno sempre più problemi.

La storia insegna che l’illusione del cambiamento attraverso il voto che avviene in caso di ricambio delle forze politiche, ma che non muta la struttura, non cambia la realtà economica e la vita di milioni di persone e questo è alla base della crescente apatia e distacco dalla politica.
Non è un caso che, in mancanza di un partito che rappresenti anche nelle elezioni gli interessi della classe operaia, l’astensionismo continui a crescere fra strati gli proletari, evidenziando il distacco degli interessi reali di chi ha perso o non trova lavoro, casa, diritti.
L’astensionismo proletario non significa indifferenza dalla politica. In generale è praticato da lavoratori e da compagni organizzati che lottano, partecipando in prima persona agli scioperi, alla costruzione di associazioni e Comitati, senza delegare a nessuno la difesa dei loro interessi e che non si riconoscono in nessun partito attualmente sulla piazza.

La lotta fra capitale e lavoro
Al mondo delle chiacchiere si contrappone il mondo reale di milioni di persone che, nella lotta fra capitale e lavoro, ogni giorno si battono per potere mantenere condizioni di vita decenti per sè e le proprie famiglie, faticando spesso a mettere insieme il pranzo con la cena.

Il valore della forza-lavoro in generale è costituito da due elementi, uno fisico, l’altro storico-sociale. Gli industriali cercano di realizzare il massimo profitto giustificandolo con le leggi del mercato. Il continuo attacco ai salari cerca di ridurli sempre più al minimo. I padroni si occupano solo della realizzazione del massimo profitto, lasciando allo stato e alle istituzioni il compito di intervenire con leggi a favore dei più bisognosi o poveri, e ancor più delegando alle istituzioni religiose la carità, affinché forniscano gli aiuti sociali e i mezzi necessari alla conservazione fisica della classe proletaria.
La società capitalista legifera e permette attraverso i contratti imposti dai padroni e sottoscritti dai sindacati filo-padronali di ridurre i salari al minimo e in alcuni casi sotto il minimo di sopravvivenza.
La massima flessibilità, la precarietà è sempre più diffusa, lo sfruttamento e l’intensità del lavoro sempre più intensi fanno sì che al massimo profitto corrisponda il minimo dei salari.
I capitalisti da sempre, ma ancor più oggi nella crisi, cercano di ridurre i salari e aumentare la giornata lavorativa, come Marchionne e la FIAT dimostrano, ed è solo con la lotta di tutti i lavoratori a livello nazionale, i contratti nazionali e gli interventi legislativi che si può cercare di contrastare questi attacchi con speranza di successo.

Non abbiamo nessuna illusione sullo stato. Sappiamo bene che non è un organismo neutro, al di sopra delle parti. Siamo coscienti che la “Repubblica Italiana nata dalla Resistenza” è uno Stato capitalista. Questo Stato che tutti i borghesi difendono non è altro che l’organizzazione, l’istituzione che legittima gli sfruttatori; è l’organizzazione che essi si sono data per difendere e mantenere i loro privilegi.

Centro di Iniziativa Proletaria “G. Tagarelli”
Sesto San Giovanni 30 maggio 2011




mercoledì 18 maggio 2011

Chávez aiuta Santos e tradisce la causa

Caracas arresta un rifugiato politico colombiano, direttore dell'agenzia svedese Anncol, e lo consegna a Bogotà. Le proteste del popolo filo-Chavez






Joaquín Pérez Becerra è un rifugiato politico colombiano che da anni vive in Svezia dove dirige l'Agenzia di Notizie Nuova Colombia (Anncol), un media alternativo molto seguito che ogni giorno produce notizie sul conflitto sociale e armato del paese sudamericano. Schierato apertamente contro il governo di Alvaro Uribe prima e di Juan Manuel Santos adesso, ha un sito web visitato da migliaia di persone di tutto il mondo. Il 23 aprile, stava transitando per l'aeroporto di Caracas, proveniente dall'Europa, ed è stato arrestato. Poi, estradato in Colombia dopo soli due giorni. Su di lui un mandato di cattura internazionale per l'accusa dello Stato colombiano di appartenere alle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc), quando è in realtà uno dei tanti rifugiati politici scappati per restare vivi.

Dal 27 aprile il sito di Anncol è "sospeso".

Secondo un comunicato diffuso poche ore dopo l'arresto dal Ministero del Potere Popolare degli Interni e della Giustizia del Venezuela, infatti, "il cittadino Joaquín Pérez Becerra è ricercato dagli apparati della giustizia della Repubblica della Colombia attraverso l'Interpol, con una circolare rossa", ma nessuno avrebbe mai pensato che il governo Chávez si precipitasse a consegnarlo a Santos. Anche se dalle ultime righe del suddetto documento si potevo dedurre: "Il Governo Bolivariano ratifica in questo modo il suo impegno irriducibile nella lotta contro il terrorismo, la delinquenza ed il crimine organizzato, nella stretto rispetto degli impegni e della cooperazione internazionale, guidato dai principi di pace, solidarietà e rispetto dei diritti umani". Eppure tante cose stonano. I concetti di pace, solidarietà e rispetto dei diritti umani associati al governo colombiano, stridono addirittura. Ma che Caracas vada stringendo legami molto stretti con Bogotà da quando Uribe non è più al potere è cosa nota.

Questa estradizione però ha immediatamente creato un movimento di protesta internazionale, a cui ha aderito buona parte dei movimenti di base latinoamericani e non solo. Una protesta che inizia con l'arresto e si acutizza contro Chavez che ha consegnato nelle mani degli aguzzini un rifugiato politico. Anche la Svezia ha protestato: portavoce del Ministero per le Relazioni Estere, Teo Zetterman, ha spiegato come sin da subito "la Svezia abbia richiesto spiegazioni al Venezuela sul motivo per cui le autorità svedesi non siano stato informate della detenzione di un loro cittadino, poi estradato in Colombia". Una domanda che non ha ancora ricevuto risposta.

Le accuse contro Pérez risalgono a quando militava nella Unión Patriótica, il movimento politico di sinistra che venne sterminato dal terrorismo di Stato in pochi anni. Gli unici superstiti sono coloro che riuscirono a fuggire all'estero. E infatti, come afferma il governo svedese "Pérez non è ancora chiaro di cosa sia ufficialmente accusato". Inutili le dichiarazioni del ministro degli Interni colombiano, Vargas Lleras, che ha provato a negarne la cittadinanza svedese, riferendosi a presunti scambi di identità contraffatte. Il ministro svedese si è precipitato a ribadire che Pérez Becerra ha ricevuto la nazionalità svedese nel 2000, e quindi le autorità del suo paese dovevano essere informate del suo arresto e della sua estradizione.

Ma perché Chávez ha deciso per il sì? Inannzitutto perché da tempo sta cercando di pulirsi dalle accuse di essere un "facilitatore del terrorismo delle Farc" che gli sono piombate per anni addosso dal Bogotà e da Washington. Infatti, da quando Santos è al potere, Caracas ha migliorato molto le relazioni con il vicino di casa, con il risultato della riapertura delle frontiere, della smilitarizzazione di Zulia, Táchira e Apure, della collaborazione economica e della serenità politica. In cambio è chiaro che adesso sia meno libero di decidere secondo coscienza sul comportamento da tenere riguardo a questioni internazionali, come il caso di Pérez Becerra.

Per nessuno è un segreto che Joaquín Pérez ha continuato in Europa il lavoro contro il terrorismo di Stato. Anzi fu uno dei colombiani in esilio che fondò la Asociación Jaime Pardo Leal (AJPL), organizzazione svedese solidale alla lotta del popolo colombiano. In ogni atto, manifestazione, protesta, conferenza o incontro in Svezia e in ogni altro paese europea, Pérez c'era. E non è neppure un segreto che Pérez ha costruito ponti fra lo stato svedese e norvegese e la guerriglia delle Farc per facilitare un processo di pace a partecipazione internazionale. Un attivista da sempre nel mirino di Bogotà, che attraverso i servizi segreti mai lo ha perso di vista e che ora brinda per averlo catturato. Con l'aiuto di Chávez. Che ribatte: "Secondo me a Pérez Becerra gli hanno teso una trappola per tirare una pugnalata pure a me. Pensate a questo, invece di accusare Chávez. Io rispetto le vostre critiche, però colui che non sa è come colui che non vede. Non sto dicendo che sia un terrorista, ho solo rispettato degli accordi internazionali".

Stella Spinelli