mercoledì 25 febbraio 2009

CRISI ECOMOMICA O FALLIMENTO DEL CAPITALISMO?

Al centro di questo incontro c'è una domanda che tutti si pongono: quella attuale è una delle tante crisi cicliche che ha conosciuto il capitalismo nel corso della sua lunga vita e che ad esso sono connaturate o si tratta, al contrario, di una crisi sistemica? Dalla discussione verranno fuori senz'altro risposte diverse, come è giusto che avvenga in unvero confronto democratico, che noi vogliamo auspicare e, per la parte che ci compete, realizzare.
A mio parere, la situazione odierna è strettamente legata al crollo dei regimi comunisti dell'Est europeo. In conseguenza di tale crollo, il capitalismo ha creduto di avere le mani libere per tornare allo status quo per rimettere in discussione i diritti fondamentali conquistati dai lavoratori, per realizzare una redistribuzione della ricchezza verso l'alto, cioè a discapito delle masse popolari e a favore dei ricchi, che sono diventati sempre più ricchi, mentre i poveri sono diventati sempre più poveri. Il capitalismo ha ridotto, innanzitutto, i salari, ma, se la gente
non ha soldi in mano, non può comprare, diminuiscono i consumi e, quindi, la produzione. Il rimedio è stato peggiore del male. Per evitare la contrazione dei consumi, si è fatto ricorso ad un'economia drogata: le famiglie sono state spinte, attraverso carte di credito, accensione di mutui a tasso variabile, ecc., a spendere più di quello che avevano, indebitandosi oltre la misura consentita.

Di conseguenza, non hanno potuto far fronte ai debiti contratti, mandando in crisi il sistema delle banche.
Di pari passo, è stato quel processo di finanziarizzazione dell'economia già previsto da Marx e ben
delineato da Lenin in un'Imperialismo fase suprema del capitalismo. Tale finanziarizzazione è molto pericolosa e rischia di mettere in crisi l'intero sistema capitalistico, per due ordini di motivi. In primo luogo, a differenza del capitale produttivo, che si riproduce e si espande con l'estrazione di plusvalore e profitto dalla forza lavoro nell'ambito del processo di produzione, il capitale in denaro è molto più irrequieto ed impaziente, molto fluttuante ed incontrollabile, talvolta schizofrenico. In secondo luogo, se, come è accaduto per effetto della finanziarizzazione, le banche sono pure proprietarie delle industrie, la loro crisi determina quella delle stesse
industrie. Perciò la distinzione che alcuni economisti e politici, da Berlusconi a Veltroni, fanno in questi giorni, tra economia finanziaria ed economia reale è puramente di scuola, perché esse hanno finito per coincidere.
Ne deriva che l'intero sistema economico, con la crisi del sistema bancario, rischia di essere travolto.
Le soluzioni proposte assomigliano molto ai pannicelli caldi.

Si è parlato, anche da parte delle socialdemocrazie europee, del ritorno alle regole, di un capitalismo ben temperato, in contrapposizione alla deregulation degli anni passati. E' da centocinquanta anni che si alimenta questa speranza, anzi questa illusione. E' come pretendere una tigre vegetariana o un bue senza corna.
Il capitalismo è la legge della giungla. Ha ben scritto Marx: Il capitale ha orrore della mancanza di profitto. Quando subodora un vantaggio ragionevole il capitale diventa insolente. Al 20% diventa entusiasta. Al 50% è prepotente; al 100% pesta sotto i piedi le leggi umane e al 300% non indietreggia dinanzi ad alcun crimine.
Si è parlato a sproposito di un ritorno al keynesismo. Ben diversa è la funzione attribuita oggi
all'intervento dello Stato. Difatti, Keynes sostenne, all’epoca della grande crisi del 1929-33, che lo Stato doveva diventare imprenditore nelle attività produttive per diminuire la disoccupazione, stimolare la domanda aggregata e regolare la circolazione monetaria attraverso la Banca centrale, la quale deve fare in modo che il saggio di interesse corrente sul mercato non superi l'efficienza marginale del capitale. Naturalmente quella keynesiana era una terapia che cercava semplicemente di attenuare le crisi cicliche del capitalismo e che non poteva risolverne le
contraddizioni insanabili.
Per converso, gli interventi statali odierni – come lo stesso Berlusconi ha tenuto a precisare non sono diretti a nazionalizzare, bensì solo a puntellare le banche in crisi, allo scopo di salvare i grandi patrimoni societari in mano ai grandi azionisti, dopo che quelli medi e piccoli hanno già pagato enormemente a causa del crollo dei titoli azionari. In secondo luogo, tali interventi tendono a salvaguardare il meccanismo perverso che consente facili
guadagni speculativi e trasferisce ricchezza dalla classe media a quella ricca. Ecco perché quest'ultima ha dato il benvenuto all'intervento pubblico, mentre fino a qualche mese prima esso veniva considerato lesivo della libera concorrenza che, come una mano invisibile e miracolosa per usare un'immagine tanto cara ad Adamo Smith, avrebbe garantito, da sola, il benessere di tutta la società.
Miliardi di denaro pubblico vengono, dunque, regalati ai gruppi finanziari dominanti e bruciati grazie al meccanismo, anch'esso perverso, della borsa. Il cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga, presidente della Caritas internazionale e osservatore della Santa Sede alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazionale, rivela, sulle colonne di
Famiglia Cristiana (n. 45/2008), che basterebbero a sfamare un miliardo di persone denutrite nel mondo 30 miliardi di dollari all’anno, cioè meno del 5% del piano della Casa Bianca a favore delle banche. Lo stesso cardinale propone l'istituzione di un Tribunale internazionale per i crimini finanziari, che, addirittura, producono molti più morti delle guerre, per fame, sete e malattie. Se lo propone lui, che rappresenta la Chiesa cattolica, ossia uno
dei principali puntelli del sistema capitalistico mondiale, non vedo perché non dovremmo proporlo noi, che siamo per il superamento di questo sistema.
Ma, per tornare alla domanda di partenza: la crisi attuale è in grado di far crollare il capitalismo? Da sola no. Essa può determinare la stagnazione economica, non il crollo finale. Labbattimento del sistema capitalistico richiede un'azione cosciente, altrimenti la sua crisi può durare anche secoli, come quella dell'impero romano. Per questo è necessario un soggetto politico che sia protagonista della trasformazione economico-sociale. Ciò significa che in Italia bisogna compiere tutti gli sforzi necessari per la creazione di un solo partito che riunisca tutti i comunisti. Chi non
vuole un solo partito comunista, in realtà, non ne vuole nessuno, perché, in stretto rapporto con l'accentramento dei capitali in poche mani e con il potenziamento dei monopoli, si è realizzato un nuovo autoritarismo politicoistituzionale, che, dando attuazione, nel nostro Paese, al Piano di rinascita nazionale di Licio Gelli, si propone, attraverso un sistema di controriforme, basato su sistemi elettorali maggioritari e soglie di sbarramento, di cancellare dalla scena politica e dal campo istituzionale ogni presenza comunista.

Chi si oppone alla nascita di un solo partito comunista si assume la responsabilità di consentire la realizzazione di tale piano.

Antonio Catalfamo

TRATTO DAL CONVEGNO TENUTOSI IL 22 NOVEMBRE 2008 NELL'AULA COSIGLIARE DELLA PROVINCIA REGIONALE DI MESSINA, ORGANIZZATO DAL CIRCOLO CULTURALE "QUARTO STATO".

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